Arcipelago (caraibico) gulag

2007-04-04 21:02:22

 

Reinaldo Arenas: “Arturo, la stella più brillante” pp. 80, euro 8, Cargo, 2007

 

su Via Po il 10 marzo2007

 

Probabilmente pensate che di letteratura sui gulag – o sui lager o su qualsiasi universo concentrazionario della mitologia statunitense - se ne sia stampata anche troppa. Ma questa testimonianza sulle Umap, campi di concentramento cubani per omosessuali, – non è affatto superflua. Non solo perché ci ricorda (oggi, che i gay occidentali, orgogliosi e vincenti, determinano le decisioni

 

parlamentari) che negli anni settanta (e forse anche oggi) nel più celebrato dei paradisi socialisti la carriera dell’omosessuale culminava nel lavoro forzato. 


No, non sta certo nelle implicazioni sociopolitiche il valore di questo compatto libricino, ma nelle doti di ‘trasfigurazione’. In un groviglio inestricabile di crudezza e lirismo, in una versione acuminata e convulsa della ben nota affabulazione latinoamericana, Arenas ci illustra, senza una sola caduta di tensione, il segreto della sopravvivenza. All’abiezione si resiste “non con racconti, non con inventari, e nemmeno con analisi dettagliate o brillanti, che in fondo non fanno che avallare, situare, giustificare, conferire maggiore realtà alla realtà che si patisce” ma anteponendo all’immagine che si subisce quella che si desidera, “non come immagine, ma come qualcosa di vero di cui si possa godere”. Qualcosa da indossare. Occorre trasfigurare all’istante, considerare se stessi alla stregua del bambino a cui Benigni racconta un sacco di frottole ne La vita è bella. 

Uno scrittore è sempre sospetto, la sua professionale ricerca di distanza viene percepita come superbia. La ricerca della solitudine, del silenzio, dell’immobilità, è trasgressione ben più grave della diversa sessualità. E’ solo quando legge gli scritti di Arturo durante una perquisizione che il tenente resta davvero schifato. E’ compitando faticosamente parole incomprensibili come “giacinti, turchesi, onici, opali, calcedonie, giade… un intirizzito lofoforo” che il caporale mormora: “Stavolta sì che l’abbiamo preso con le mani nel sacco”.

Ma uno scrittore non si cura dei supplizi, purché possa scrivere. Dover rubare pezzi di carta di ogni tipo e nascondersi, nascondersi a tutti, soprattutto ai compagni di sventura, i veri nemici, coloro che non sopportano il distacco del sognatore, del costruttore di mondi, talmente impratichito nel suo lavoro che “innalza una pagoda (con i basamenti dipinti a olio) mentre tutti intonano come d’obbligo le note dell’Internazionale”, quello è l’unico vero supplizio.

A ben vedere la lotta di Arturo, esasperata e nobilitata dalla tragedia, rispecchia il quotidiano, sebben più confortevole, tormento di ogni scrittore: “tutto cospirava contro di lui, tutti lo interrompevano, lo ostacolavano, ogni cosa intralciava, ritardava, posticipava… c’era sempre un appello, qualcuno che ti cerca, che ti strilla, che ti urla dietro… bisognava rifiutarsi, ingannare per non essere ingannato, innalzarsi per non essere schiacciato… intuiva che realizzare i suoi propositi in quelle condizioni era impossibile, ma capiva anche, con chiarezza ancora maggiore, che quella era l’unica cosa che giustificasse la sua vita, tempo, tempo, prima di tutto gli serviva del tempo”. 



 

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