Una viva passione

2007-02-06 17:50:30

 

Sul numero 5 (2006) di QdS - quaderni di didattica della scrittura - Carocci Editore

 

Gino si disimpegna tra i vialetti del cimitero vecchio e percorre il vialone dell'ala nuova, tra cappelle rigorosamente e democraticamente uniformi nelle dimensioni (per evitare l'accaparramento dei lotti,

 

identici, in municipio si è deciso di non assegnarli a chi avesse tra i titolari di cappelle parenti in linea retta entro il I grado, in linea collaterale entro il II grado e affini entro il I grado) e violentemente, ma altrettanto rigorosamente, difformi nello stile, nei colori, nei materiali. Questo lungo viale, compendio architettonico di straordinaria ricchezza, non serve a illustrare differenti concezioni della morte: si limita a negarla, dimostra la volontà di farne un prolungamento della vita. Non l'aldilà, mistero e lontananza, ma un'appendice abitativa, un soggiorno termale, un trattamento di quiescenza. La seconda casa. O (per chi non possiede cappella) il secondo giardino (il Comune, infatti, ha dovuto affiggere per tutto il paese divieti di messa a dimora piante - in particolare Yucca e Palme - sul terreno destinato alla tumulazione dei defunti).
Ed ecco, appiccicate, cappelline panetteria, cappelline farmacia, cappelline macelleria, cappelline banca, cappelline residence. Anche qualche cappellina mausoleo.
Qui, finalmente, ogni alloggio rispecchia la personalità dell’occupante. Non proprio degli attuali occupanti, dato che molti di loro non sono consapevoli del luogo che li accoglie, ci sono arrivati da qualche alloggio provvisorio dove erano solo ospiti. Ma certo dei futuri occupanti. Qui non c’è la casualità degli alloggi precari della vita, progettati da chissà chi, acquistati per motivi logistici, affittati per motivi economici, costruiti col criterio della comodità, moltiplicati indistintamente. Qui non c’è la preoccupazione del conformismo, delle tendenze, dell’innovazione costruttiva. Ci costruiamo la casa che ci piace, il loculo che ci riflette. E’ tutto molto netto, espressivo, impudico, niente di grigio, approssimativo, informe.

Gino trae conforto dalla brillantezza della vita oltremondana, segue ogni fase delle sepolture, assiste entusiasta alle esumazioni, partecipa, si allena. In classe si riesce a tenerlo buono facendogli disegnare bare e cimiteri ma uno solo dei suoi quaderni è in ordine: il Libro dei Morti, scrupolosamente aggiornato, con nome e data del decesso di ogni morto del paese. E’ sempre stato attratto dal cimitero, ma da quando è morto il padre non riesce a staccarsene. Passa più mattine qui che a scuola. E la professoressa, in fondo, è più sollevata: Gino è troppo più grande, e anche più grosso di tutti i suoi compagni, e le mattinate in classe di uno un po’ duro di testa, svogliato e irritabile, finiscono spesso con uno scontro fisico.
Non gli era piaciuto, invece, il cimitero monumentale di Lecce (aveva parenti anche lì) con le cappelline ammassate medievalmente senza regolarità, con vialetti tortuosi a sorpresa e le stupende cappelle pagane egiziache, solo a volte cristianizzate da piccoli crocefissi (opera dei discendenti?). Non gli era piaciuto perché mancava di morti fresche.

Al cimitero aveva cominciato ad andarci da piccolo, con altri due compagni. Avevano scoperto che la finestrella alta dell'ossario era raggiungibile dall'esterno del cimitero, issandosi sul basso muro di cinta. Gino era salito, aveva dato una leggera spinta all'imposta di legno stinto, tarlato ed era saltato via senza neanche guardare. Si erano allontanati di qualche metro dal muro guardando in su, poi Gino era risalito e aveva sbirciato. Il teschio lo guardava. Si era buttato giù di nuovo. Dopo un po’ era salito Mino e aveva guardato anche lui, per qualche attimo. Era salito anche Salvatore, sempre per poco. Poi Gino era risalito e aveva guardato quasi tutto il locale prima di scendere. Poi era salito ancora senza più scendere. Mino era risalito di nuovo, di fianco a lui, per qualche secondo. Salvatore aveva incominciato a dire andiamocene. Lui non rispondeva e alla fine lo avevano lasciato solo. Loro avevano paura dei morti, lui no. Se era scappato all'inizio era per paura dei custodi. Sentiva che era una cosa proibita. Come guardare una donna nuda. Un corpo denudato anche dalla carne. La nudità più grande possibile. Ma una volta rassicurato sull'assenza dei vivi non aveva avuto nessun problema a restare con le ossa. Le ossa lo colpivano più dei teschi. I teschi sembra che parlino, tra una testa di morto e una testa di vivo non c'è poi tanta differenza, specie per i teschi con i capelli. Sembrano teste di vecchi un po' più vecchi. Questione di gradazione. Le ossa sparpagliate, invece, coi cristiani c'entrano poco.
Ma neanche le ossa Gino sentiva lontane. Lui non era in grado di fare molte riflessioni, né allora né dopo, ma quello che sentiva non era la distanza, l'abisso tra la vita e la morte, il niente di cui siamo fatti o la sottigliezza del filo tra l'essere e il non. Lui avvertiva soprattutto la familiarità, la tranquillità, la continuità delle ossa. Il disinvolto intreccio, in quell'ammasso indecente, di decine e decine di esistenze. Gli piace entrare nell'intimità.

Gino non lo sa ma la sua passione è condivisa da tanti suoi concittadini. Che passeggiano, però, in un cimitero più vecchio, tra filari di vigna. Esumano di notte, alla luce di torce, insinuando attrezzi affilati tra radice e radice. La loro perizia è indiscussa, amorosa l'esperta carezza sui resti. E' un secolo ormai, che si tramandano mappe mentali, tecnica (poca) immaginazione (tanta) e passione (o avidità?). Nessuno si è veramente arricchito, nonostante le centinaia e centinaia di tombe frequentate, le armature d'oro (o di semplice bronzo?) i tanti tesoretti, le migliaia di vasi, più belli di quelli greci, anzi greci essi stessi - se il pittore era "d'Atene". Ma qualcuno ci ha vissuto, parecchi hanno arrotondato, tanti ci hanno tentato, tutti hanno un ricordino: i morti sono un buon cespite.
Mille anni di morti. Ci sono altri siti messapici, anche più interessanti, ma il numero di queste tombe è sterminato. Impossibile contarne gli strati: si accavallano senza apparente ordine, si ammucchiano a profusione, contro ogni logica. Anche altrove, con l'allargarsi della cerchia muraria, strade e case si sovrapponevano a tombe più antiche ma qui le tombe sono ricavate nelle case stesse.
Non si è mai visto che nell'arco di cinquant'anni si edificassero case sopra le tombe. Nessuno ha mai costruito sulle ossa del nonno - osservava a luglio il professor Brueger che viene qui ogni estate a scavare con i suoi studenti, soprattutto studentesse, burrose ragazzone olandesi in pantaloncini e reggiseno che sanno maneggiare energicamente i picconi e manovrare con garbo il cucchiaino per svuotare le occhiaie di piccoli teschi di fanciullo. Soggetti ideali per allegorie sul tempo, queste attraenti studentesse incarnano poi, a fine luglio, il mito di Antigone al contrario: per mancanza di fondi che permettano recinzione e guardianìa, sono costrette a risotterrare i morti. O bisognerebbe dire che incarnano Penelope?
Di sicuro incarnano le loro fresche carni.
A Brueger le tombe danno quasi fastidio. Contrariamente a tutti gli archeologi, ufficiali e no, lui cerca case, cioè, nella fattispecie, fondamenta e cocci. Scopo di questi scavi è infatti l'acquisizione di notizie sugli edifici messapi. Però nelle tombe ci inciampa continuamente. E sono rogne, perché le tombe vanno aperte, fotografate e ripulite accuratamente non appena trovate, anche se hanno risuonato sotto i ferri a fine giornata. I tombaroli, così utili e disponibili quando si tratta di fondamenta e lastrici stradali, non lascerebbero passare la notte. Una volta hanno intuito prima di lui la presenza di una tomba tra le fondamenta e al mattino era già bell'e aperta. Intralci, dunque. Ma gli occhi di un archeologo, professionista, dilettante, aspirante od occasionale che sia, non possono non brillare di fronte a una lastra tombale. E anche gli occhi di un qualsiasi paesano. Una tomba è una tomba. Tomba è Tesoro. Le pietre, va bene, sono tesoro di conoscenza. Ma un vero tesoro è di metallo. Tutt’al più di ceramica.

Tomba, anche, la segreta stanza di Cheope, la meta finale del viaggio esoterico che impegna molte menti della sua terra. Che contenga l'Arca o uno Scarabeo, un messaggio o un monolite, è una tomba ad attrarre il Segretario comunale. Gino c’è stato a casa sua, la madre fa da sempre le pulizie, e certi libri, tra i mille che stavano in questa casa, gli sono piaciuti: ha capito che alcune di quelle immagini avevano a che fare coi morti (lui sa tutto della mummificazione, tutto quello che è riuscito a tirar fuori alla professoressa). Le ricerche sui templari hanno portato il Segretario a partecipare all'avventura trigonometrico-esoterica della Linea, dietro ai percorsi della stella Sirio, alle ombre proiettate da Castel del Monte, all'insensata disposizione delle sue centodiciassette feritoie prive di qualsiasi immaginabile scopo. La Linea unisce Castel del Monte, Chartres e la Grande Piramide. E Castel del Monte, quel castello così poco castello e tanto poco casino da caccia che nessuno ha mai capito perché mai fosse stato fatto costruire, è un meraviglioso, duraturo crittogramma lapideo, un complicato cartello segnaletico. Certamente fu utilizzato per gnostici convegni, ma la sua reale funzione era quella di indicare la camera del Faraone. La vera tomba di Cheope. Oppure un sito molto più importante e prezioso della sepoltura di un singolo faraone. Un deposito di conoscenze. Un silo di gnosi. O un minuscolo amuleto. Il Segreto. Forse, finalmente, l'Arca.
E non è una tomba quell’ossario otrantino che domina l'immaginario salentino?

Ma a Gino non piacciono queste attività oscure, clandestine, mistiche o esoteriche. C’è stato, sì, a guardare le tombe antiche con il resto della classe, una visita istruttiva guidata dalla maestra. Lui, naturalmente, non aveva guardato la vasaria, né i resti delle pareti delle case messapiche. Però un’occhiata alla greca che decorava una tomba l’aveva data. Le ossa, ben pulite, non gli avevano detto granché. L’aveva colpito invece un medaglione. Una cosa contorta, rugginosa, di poco valore. Interessante perché anomala, come corredo funerario di questo popolo. Interessantissima per lui perché gli ricordava il medaglione della mamma, quello col ritratto del padre.
Dei morti, a lui, piace parlare. Un giorno, quando le aveva comunicato con eccitazione la partenza per Bergamo, un soggiorno presso alcuni parenti, la professoressa si era illusa. Ma dal resoconto, al ritorno, aveva compreso il motivo dell'entusiasmo: lo zio faceva il becchino e lui aveva passato la vacanza ad aiutarlo.
Lei compie eroici e inutili sforzi per distogliere Gino dalle sue morbose occupazioni.
Perché morbose, poi? Era normale il becchino di ruolo, quel giovanottone che aveva passato anni a scarrozzare nei viali della Villa comunale il suo fisico a metà tra il culturista e il trippone, ciuffo imbrillantinato incluso, per arrivare a far la guardia ai morti? Quando si sarebbe dovuto far la guardia a lui, che, dopo averle trascinate a contemplare in bacheca il provvedimento che lo nominava becchino di ruolo - e come aveva insistito su quell’esilarante di ruolo - aveva finito per farsi allontanare dall'incarico.
Non era cattivo, il giovanotto, ma che genere di normalità è quella di uno che rompe le ossa di quelli che hanno resistito intatti e raccoglie per mangiarsele le lumache che escono fuori da quelle parti? Le professoresse avevano tanto riso - e meditato - su quel suo commento passato alla storia. Di fronte a un tramonto meraviglioso di quelli do sudd, a un sole grande che si stagliava netto sull'orizzonte se ne era uscito con un Quant'è bello Gesù. (Gesù, non Dio, e bello stava per grande) Ma guarda quel sole, guarda com'è rotondo. Neanche un ingegnere! Poiché, naturalmente, cosa c'è di più irraggiungibile, di più perfetto dell'opera di un ingegnere? Dio, vabbé, lui crea universi, sì, ma in fondo è un praticone: impasta argilla e alita, è poco più che un ceramista. Usa torni di legno e si sporca la barba, che sa lui degli strumenti moderni? Di conseguenza, commentò il Segretario, il becchino doveva avere per un geometra la venerazione che un greco avrebbe avuto per un eroe, un semidio. Ma la passione del becchino, come quella dei tombaroli, era indirizzata più agli oggetti d'oro che ai loro defunti proprietari.
E’ poi così diverso Gino dal figlio del Segretario, che all’università sceglie archeologia per poter vigilare sulle ossa di Delia, o di qualsiasi altra Lucy, dopo che per secoli si sono estratti olio e vino dal loro podere su quell'immenso cimitero?

La passione di Gino è molto meno morbosa. E' solare, pratica, rivolta ai morti freschi, cioè ai quasi vivi, al prossimo. A gente che (come certi martiri d'Otranto, del resto) conserva ancora, attaccati alle ossa, brandelli di carne. Ma lei non si accorge che finalmente quel ragazzo le ha consegnato la chiave. Lo strumento che nessuna insegnante di sostegno, nessuno psicologo era mai riuscito a trovare. Un canale di comunicazione, una fonte infinita di stimoli. Una passione. Tutto può passare attraverso questa porta: le Piramidi sono tombe, le religioni non trattano d'altro. Gli puoi far ingoiare perfino la Divina Commedia. E se c'è geografia, ogni paese ha i suoi cimiteri. E ogni cimitero è storia dell'arte. Altro che distogliere: questo ragazzo si sta davvero preparando un mestiere. Un mestiere sicuro, che cercano in pochi. Non troverà quindicimila aspiranti ai suoi concorsi. Lasciamo che diventi un becchino motivato. Se diventasse addirittura un'artista nel suo campo? Presto anche qui si pitteranno i morti come in California. Quella del morto è l'unica industria che non conosce crisi, insieme a quella delle nozze. In nome di cosa si vuol distruggere un sicuro avvenire, una vita felice? Si ha l'occasione di trasformare la scuola, una volta tanto, in un fattivo avviamento, di far sviluppare un ritardato ormai dato per perso e ci si fa scrupolo di coltivare un'anormalità? A quale normalità si vuol prepararlo? Al teppismo o all'abulia di tutti gli altri? Degli spassionati?

E domani finalmente si comincia. Non proprio nel cimitero, purtroppo (Gino è in qualche modo consapevole che gli sarà molto difficile trovare un posto al Comune: non c'è passione che tenga se al concorso non riesci a mettere due parole in croce) ma alle pompe funebri. Paramenti, bare, corone e cuscini, cortei (scherzi? fare strada ai cortei, alzare il palmo come un vigile?) registri per le firme. E i morti, le case dei morti, tanti morti, tutti diversi.
Sarà certamente redarguito perché si metterà a seguire i becchini in tutte le incombenze, soprattutto quando ci sono i seppellimenti in piena terra.

Ma stasera Gino è tutto solo nel suo cimitero. Si è lasciato chiudere dentro (tanto sa come aprire la porticina della cappella per uscire) e ripercorre i vialetti all’imbrunire. I lampioni sono già accesi (gli piace questa luminosità solo decorativa) e camminando passa la mano sulle pareti delle cappelle rivestite di marmo, così fresche nell’aria estiva ancora calda.
Rumori nel vialetto lungo il muro dell’ingresso secondario. Gino non si spaventa, animali o morti non ha importanza. Ma potrebbero esserci dei ladri, sì, o gente che fa sfregi, lo sa che ci sono. Si ferma in ascolto. Non capisce. Sono fruscii, sfregamenti, anche un mugolio. Gatti. No, è una voce. Gino procede lentamente. Vengono dalla cappellina del marito della professoressa. Non lascerà che rovinino quella cappella, ci tiene lui, alla professoressa. In classe guarda sempre il medaglione. A parte sua madre, lei è l’unica vedova, a parte le ottentenni, che tiene ancora al collo il medaglione col ritratto del marito. Un ritratto col parrucchino, ma sul medaglione lo strano colore che aveva il parrucchino non si nota. Una fonte di pace per Gino. Poco interessato ai vivi, è contento di poter guardare anche in classe un’immaginetta di morto, come fosse su una lapide. E su una lapide davvero sembra che riposi il morto. Una lapide bianca con venature bluastre. Quando la scollatura a V è profonda, però, un solco separa due rotondità che non ci sono sulle lapidi, e neanche sulle statue di marmo. Gino resta per ore a guardare la goccia del medaglione che sembra scivolare giù, sempre più giù verso il solco. Quando è vicino alla cattedra, in piedi, alto com’è, quel solco diventa sempre più profondo, è un pozzo cupo, infinito e morbido. Di tutto ciò che c’è di vivo, lui apprezza solo le turgide pareti di quel pozzo. E se anche avesse qualcosa da dire, in risposta alle domande della professoressa, incantato com’è dal pozzo, non spiccicherebbe parola. E tutti ridono. E anche lei sorride e lui non è convinto che quel sorriso sia un buon sorriso. Allora la odia. E la perdona solo grazie al medaglione. Una volta, in gita al santuario, mentre si sistemavano per la foto di gruppo, la professoressa, seduta sulla panchina, gli aveva detto mettiti qua, indicando le gambe. Voleva dire giù, col ginocchio a terra, ma lui aveva fatto per sedersi sulle gambe di lei, tra il divertimento generale, anche della professoressa, che però era arrossita.
Ma questo risolino è davvero della professoressa. E’ lei la donna semiseduta sullo spigolo dell’altarino che le si infila tra le cosce e le divarica. La faccia non si vede, nascosta dai capelli neri, ma il medaglione sì. E c’è un altro, nuovo, medaglione scuro che spicca più giù e sembra un enorme occhio spalancato. Con la pupilla di carne che sporge a guardarlo. Dovrebbe essercene un altro ma è nascosto dalla barba del Segretario che si strofina su quel marmo cedevole, inebriato come se avesse trovato l’Arca. Ma ora si blocca. Non sono i no ridarelli della professoressa a bloccarlo: dev’essere la faccia sul medaglione, dritta davanti agli occhi. Infatti, tastando e impastando, lo prende e lo fa ruotare verso l’alto, dietro il collo. Ma lei, con un urlo, gli mette la mano in faccia e lo spinge via. Si è resa conto del sacrilegio? No, ha visto un ombra. Che è la stessa cosa: l’ombra del marito, vomitato dalla tomba. No, guardano bene, lo riconoscono. Solo adesso, di fronte a un vivo, lei si ricompone, stringe fino al collo i lembi della camicetta. Il Segretario non sa come prenderla. Questo rimbecillito lo dirà alla madre? E la madre lo dirà a sua moglie? No, può minacciarla. Ma gli altri? No, pensa lei, non parla mai con nessuno. Cerca di far finta di niente, lo chiama, la voce gli viene acuta.
Siamo rimasti chiusi dentro, non ci siamo accorti dell’orario. Anche tu?
Lui non parla. Figuriamoci se parla adesso.
Sigaretta? sorride stentato lui.
Gino indica il collo della professoressa. Loro non capiscono. Si avvicina e tende la mano. Il Segretario fa una faccia seccata. Lui infila la mano nel bavero della camicetta, che la professoressa stringe adesso con tutte e due le mani. Il Segretario gli afferra il braccio ma lui si scuote e con l’altra mano lo spinge via, senza neanche guardarlo. La professoressa sbarra gli occhi e si lancia di lato verso l’uomo, che ha urtato lo spigolo dell’altarino con un brutto rumore e si è un po’ afflosciato. Ma resta bloccata dalla catenina che Gino ha ormai afferrato così si gira e lo spinge e lo schiaffeggia e lo graffia e lui ci resta male e per fermarla le afferra il collo con l’altra mano.
E lei dopo un po’ si acquieta e si lascia andare, così lui si inginocchia e finalmente riesce a raddrizzare quel medaglione. 

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