Nuovi racconti 4

2008-03-04 17:47:20

 

Sul numero primaverile di Tratti

 

“Nuovi” perché pubblicati adesso. In realtà i racconti hanno più di qualche anno e sono stralciati da una raccolta a tema mai completata

Ami 8

 

Finalmente Francia. In una Citroen, s'intende. Brutta ma francese, patetica ma molleggiata. Da famiglia sfigata o da elettricista in carriera ma almeno non Fiat. Obiettivo principale Nantes, residenza delle nostre donne. Tanti chilometri per qualsiasi donna. Troppi per donne

 

che non erano per niente nostre. Fidanzata Juliette, sposata - e madre - la sorella più grande. Ma questi non sembravano grandi ostacoli a me a Giò. In quanto a Kosma, lui non aveva precisi richiami femminili, anche se attratto, cerebralmente, dalla sorella più piccola, saggia e pungente come spesso le sorelle più piccole, e dall’idea di rivedere Josianne, l’amica del cuore di Juliette. 

Così fummo ospitati nella Grande casa. La zona residenziale e il prato inglese non facevano molto francese ma la Grande casa, o pluricasa, moderno patriarcale, che riuniva le famiglie dei figli, sì. Maccheroni a parte. 
Io cozzai contro assorbenti intimi spessi ed eloquenti. Giò si trovò impaniato nella casta atmosfera familiare. Finimmo per passare più tempo con Antoine e i suoi amici. Ma io ero risentito. Mi ritenevo creditore di una promessa e mi si liquidava con un buffetto sulla guancia. Scoprire la Francia da solo non mi dava gioia. Eppure ero avvolto, e sotterraneamente sconvolto, dal Verde, dall’Acqua, dalla Pulizia e dalla Quiete, la Grande quiete che spirava da ogni dettaglio architettonico, da ogni vaso di fiori, da ogni atteggiamento delle persone, da ogni inflessione, sempre bassa, di quella lingua così dolce. Soprattutto dai caffè, i caffè veri, dove ci si siede e si vive. Si respira. 
Ma quella di Nantes, era, ufficialmente, una deviazione: ripartimmo, quindi, per altre mete. Casuali e scomposte: una Chartres strapaesana con una incongrua, e per noi illeggibile, cartolina gotica. Una Le Mans deserta che ci regalò un miraggio. Quella figuretta lontana, tanto lontana dalla recinzione che ci aveva fermati, a una distanza tale che non avremmo riconosciuto nostra madre, quella sagoma di spalle che colloquiava con un meccanico, era Steve McQueen. Perché lo riconoscemmo dietro i suoi Ray Ban, a mille miglia da casa sua? Per quell’inclinazione del capo? Per un’eloquenza delle sue spalle? C’è un’aura, in certe persone, che colma centinaia di metri di pista. 

Vivevamo in macchina. Dormivamo e Guidavamo a turno in uno stato ipnotico. Mangiavamo da cani. Pane e paté. Pane e formaggi puzzolenti. In qualche trattoria mangiavamo carne cruda e patate. Se tentavamo un primo saltava fuori qualche brodaglia. Ci sostenevamo con Gauloises, cigarillos e caffellatte. Dopo un tentativo di pernottamento in una vecchissima canadese del tutto permeabile finimmo per dormirci anche in quella Ami 8 del fratello di Giò. Ero disilluso, privo di entusiasmo, così passivo da risultare abnormemente ricettivo. Forse fu questo vivere in macchina, in quella macchina da elettricisti, rannicchiati su sedili scomodi ma acquaticamente cullati dal ridondante molleggio tipico delle vetture transalpine, che rese così onirica l’esperienza parigina. 
Entrammo a Parigi e camminammo. Camminammo per luoghi obbligati e per luoghi anonimi, ammesso che esistano, a Parigi, luoghi anonimi. Io camminavo e Parigi mi camminava dentro. Folle withmaniane mi attraversavano. Folle smisuratamente superiori alle creature dei libri su - e da - Parigi. Fu chiaro che tutti i libri erano stati scritti per Parigi. Attraverso, mediante e verso Parigi, ogni città essendo contenuta in Parigi. Vissi (rivissi) ogni vita vissuta dietro i vetri illuminati dei palazzi dall’altra parte della Senna e ogni vita conteneva vite di ogni altra città. Tutte le vite erano state - e sono - orientate a Parigi. Quei palazzi ne erano gonfi. 
Parigi non era un libro in cui immergersi: il libro ti fluiva dentro. Parigi era questo flusso. Non c’era bisogno di vivere una propria vita materiale. L’unica frase distinta che articolai mentalmente, rivolta alla ragazza nera che affrettò il passo spaurita mentre io la seguivo a bocca aperta, era precisamente questa: dovunque tu vada, anche se non ti rivedrò mai più, tu mi appartieni. Tutta Parigi mi appartiene, il mondo intero mi appartiene. La frase sembrava cadere dall’alto. 
L’aveva già scritta Hemingway. Ma io non potevo saperlo perché quell’Oscar mi capitò tra le mani molto tempo dopo. Lo giuro. 

 

 

                                            ***

 

Tratti - Fogli di letteratura e grafica da una provincia dell’impero, è edita da MOBYDICK. clicca qui


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