Boris

2009-01-27 13:37:10

 

Una summa (volontaria) della cialtroneria

 

sul Domenicale, 17 gennaio 2009

 

E’ il nostro eroe. Quel che ha scritto lo mormoravamo in tanti ma solo lui, con l’autorità sua e del suo quotidiano poteva sdoganare ufficialmente la fiction televisiva. Finalmente abbiamo potuto leggere su un libro (Buona maestra, Strade Blu Mondadori) che è molto difficile trovare un romanzo o un film moderni più interessanti di un buon telefilm. La mia droga si 

 

chiamava Julie – confessa Aldo Grasso – ora mi tiro su a casalinghe disperate. Il telefilm (americano, s’intende) è – a parere del nostro telefilo - il più riuscito, e forse l’unico, esempio di opera aperta.

 

Ma il nostro debito di riconoscenza non deve impedirci di ricordare che Grasso prese una seria cantonata minimizzando l’esordio del magnifico serial italiano, Boris, con una motivazione a dir poco speciosa: la serie sarebbe stata deficitaria in quanto parodia dello sceneggiato italico, che è già di per sé una parodia degli sceneggiati d’oltre oceano. Se anche fosse vero, Grasso starebbe contraddicendosi: anni fa, sul magazine del Corriere, lodò giustamente, occupando parecchie pagine, la fiction pugliese, “la migliore di tutte”. Le serie citate erano per l’appunto parodie dello sceneggiato italico, come Il Polpo, con Emilio Solfrizzi e Gianni Ciardo, parodia dichiarata delle tante edizioni della Piovra.

 

Ridurre però Boris a parodia di un genere sarebbe davvero miope. In Boris il set di una orrenda soap italica, Occhi del cuore 2, viene utilizzato per disegnare il più cattivo, esilarante, umanissimo, surreale ritratto del nostro paese. Si può deprecare, volendo, l’autoreferenzialità dell’ambientazione, ma – considerato che qualche critico fuori orario si sdilinquisce per ore blaterando del cinema nel cinema di Truffaut - perché non lodarla? Tutto sommato è una scelta perfetta perché gli sceneggiatori hanno potuto scrivere di ciò che conoscono meglio. Ogni scrittore deve trovare una chiave per parlare del mondo e le opere più convincenti sono quelle collocate in ambiti che hanno realmente costituito la cornice della vita degli scrittori. In Boris le figure degli sceneggiatori sono tra le più esecrabili. Se negli altri personaggi la cialtroneria, caratteristica precipua dell’italiano medio e vero grande leit motiv della serie, potrebbe essere perdonabile, nel caso degli sceneggiatori l’assoluzione è impensabile: mentre altrove la cialtroneria è il portato di ignoranza, incapacità, bovarismo, presunzione, provincialismo e piccole furbizie, il pessimo lavoro degli sceneggiatori diOcchi del cuore 2 è frutto di pigrizia, infingardaggine e di un’avidità paragonabile solo a quella da squalo del direttore di produzione. Le espressioni previste dagli sceneggiatori, e, di conseguenza, dal regista, sono tre: basita, perplessa e intensa (macro: F2, F3,F4).

 

Il divo della soap, Stanis (da Stanislavski), patetico nella sua boria, sembra però avere coscienza della pochezza di tutto il suo lavoro. Il suo epiteto più frequente è “italiano, troppo italiano”. Lui è convinto di adottare una recitazione di tipo anglosassone e anche fuori dal campo artistico trova che i comportamenti della troupe sono troppo italiani. .

L’unico compito davvero impegnativo di questi sciamannati è “leggere la temperatura politica”: quando occorre trovare un capro espiatorio si fanno caute indagini per individuare qualcuno non protetto e i possibili bersagli sbandierano i nomi dei garanti ad altissima voce, con arroganza, con soddisfazione. Sul poveraccio che alla fine viene licenziato infieriscono pure gli amici: ma dai, ma pure tu, e non ti trovi qualcuno?! Quando il bodyguard della moglie di un senatore che recita nella soap viene allontanato dal set si ritrova a fare una partitina a carte col delegato di produzione e l’aiuto regista, che gli chiedono: “Ma tu, come ti ritrovi a fare il guardaspalle della tipa?”. “Ho trovato una raccomandazione”. E i due allargano le braccia, desolati per non avere trovato un eccezione ma in fondo rasserenati dalla riconferma: per un attimo avevano temuto che esistessero campi dove la politica non avesse padronanza. .

 

Levate il set e metteteci qualsiasi ambiente produttivo, o un ministero, una caserma, un cantiere, un ospedale. Le dinamiche messe a nudo in Boris valgono ovunque. Il pressappochismo, l’ipocrisia, la manovra, la meschinità e le tecniche di sfruttamento sono gli stessi di qualsiasi ambiente. Tutto è fatto un po’ a cazzo di cane, come recita la sigla e come spesso accetta, o addirittura pretende, il regista: il profilo dei pochi attori veri che capitano sul set va tenuto basso per evitare che risulti ancor più squallida la prova dei cani e delle cagne, gli attori principali. Il torchio che stritola i precari, gli “stagisti”, è illustrato perfettamente in due, tre battute. Niente lungaggini e piagnonerie: qui si ride a ogni passo e le battute memorabili si contano a decine. Il pregio principale sta appunto nella declinazione della cialtroneria: ogni personaggio, tranne due (lo stagista e l’assistente alla regia, una strepitosa Caterina Guzzanti), ne incarna una variante, da quella consapevole, furba, a quella inconsapevole, coatta, passando per quelle ambigue, sfumate, in cui il personaggio non sa lui stesso quando ci è e quando ci fa.

 

Non c’è un solo neo in questa fiction. Partita in sordina, è diventata di culto prima tra gli addetti ai lavori e poi, trasversalmente, in molte fasce di pubblico. Gli episodi si possono rivedere a volontà: non stancano neppure alla quarta visione, perché i tempi sono perfetti. La sigla è di Elio e le storie tesema come sigla finale dell’ultima puntata della prima serie c’è uno stupendo pezzo di Pannofino (il regista Renè).

 

Si parla di una terza edizione. Noi fan non disperiamo. Nel frattempo abbiamo atteso invano un ripensamento di Aldo Grasso, che invece ha continuato a condannare tutta la fiction italiana. Forse ha ragione, però. Boris in fondo non è davvero italiano: è nato sul satellite. E la recitazione è così poco italiana.

 

 

 

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Commenti: 1
  • #1

    Guido Calvarese (mercoledì, 16 gennaio 2013 12:56)

    Ben più dell’elemento comico (e, certo, Boris fa ridere moltissimo) il vero elemento portante della serie è la satira feroce, a ben guardare mai stemperata da buonismi di sorta. Mancano completamente sia risvolti consolanti nella trama (i personaggi “positivi” restano degli inetti e rimarranno per sempre oppressi e angariati, non c’è alcun riscatto), sia quello sguardo un po’ indulgente che spesso ha caratterizzato nel cinema la grande commedia all’italiana di alcuni decenni fa. A tal proposito trovo che Boris, per temi e linguaggio, sia strettamente legato proprio alla tradizione della commedia italiana ed ai suoi grandi interpreti.

    Basti pensare all’adorabile cialtroneria di alcuni personaggi di Gassman o Vittorio De Sica, alle fulminanti intuizioni linguistiche di Verdone (ad esempio, in Boris, l’uso dell’assurda e abusata espressione “…e quant’altro”) e, soprattutto, ai mille italiani meschini, vili e maneggioni portati sullo schermo dal grande Sordi. Un altro elemento che pone Boris esattamente nel solco di tale tradizione è l’identificazione geografica e, quindi, la “romanità” che pervade tutte le vicende. Non esistono città, e altro linguaggio se non il romanesco, più adatti a collocare ed esprimere la faciloneria (“a cazzo de cane”), la crassa arroganza nel sopruso e nel bullismo, la vita impostata al “tira a campa’”.

    In Boris, tuttavia, al di là delle mille gag e delle risate, il taglio è quasi crudele e riflette, in fondo, una società spavaldamente amorale in cui i mezzucci, i “favori”, gli appoggi politici e le raccomandazioni non sono più parte nota (ma tenuta nascosta) di un sistema di “vizi privati e pubbliche virtù”, ma sono addirittura sbandierati (“ma io lo dico, per il cinema la do subito, ma per la televisione no…”), sono motivo d’ammirazione per l’intraprendenza altrui (“si è fatta mezza Corte Costituzionale, è andata direttamente al cuore dello Stato”). Il successo è l’unico obiettivo e i modelli sono quelli più nazional-popolari (“io tra tre mesi so ‘a Ferilli!”), l’ignoranza accomuna (“qualità, qualità!”) mentre la poca cultura serve ad infiorettare le azioni più becere (“quello che ha fatto grande questo Paese sono le contaminazioni culturali”, prima della distribuzione delle mazzette).

    Inoltre le esagerazioni e le iperboli nella narrazione non sono mai spinte al limite del verosimile, ma solo accennate. Sembra quasi che gli autori suggeriscano che, come le scene di Occhi del Cuore sono solo lievemente parodiate rispetto ai vari Incantesimo o Cento Vetrine, così è davvero poca la distanza tra ciò che accade nella nostra realtà (come dicevi, in ogni ambiente della società) e ciò che accade sul set in Boris. In questo senso l’autoreferenzialità della fiction nella fiction è un virtuosismo e non certo un difetto.

    Boris è una serie ma la scrittura è, certamente, a livello delle migliori (e più amare) commedie della nostra tradizione. Sono convinto che Grasso, se avrà occasione, non potrà non ricredersi né potrà accomunare ancora Boris alle altre fiction/serie italiane. Mi vengono in mente molte altre cose, soprattutto mille e mille battute memorabili, ma è il caso che non mi dilunghi oltre. Speriamo trepidanti nella terza serie.