La letteratura che vuole Franchini

2011-08-15 16:20:36

 

Perché le recensioni ci girano intorno?

 

Una riflessione sul libro, non recente, di Antonio Franchini

 

Una mia amica non va a teatro da anni: come posso, esclama, tollerare il raglio, l’impostazione, le messe in scena, dopo aver partecipato al “togliersi” di scena di Carmelo Bene? Fondamentalista, replico io che non disdegno le opere di Yasmina Reza, mica ci si può immergere ogni giorno nel sublime. Né si può smettere di leggere perché si è letto Proust: la letteratura è costituita da infinite realtà, bisogna contestualizzare, valorizzare la disinvoltura, la leggerezza, l’ironia.

 

Ho perseverato nel sostenere queste moderne ed ecumeniche tesi, ma negli ultimi tempi mi ritrovo sempre più insofferente. I romanzi mi cascano di mano, neppure li compro: mi basta sfogliarli due minuti in libreria per desistere. Fino a qualche tempo fa riuscivo ad addentare qualcosa di carnoso rivolgendomi agli autori stranieri, adesso non trovo soddisfazione neppure nel più esotico dei paradisi - o degli inferni. Sbuffo, mi deprimo, mi do alla saggistica, alla storia, alla specialistica. Ma non mi piace palesarlo, il nasino arricciato non mi si addice, che figura si fa a tromboneggiare rimpiangendo i vecchi tempi?

 

Intuivo quello che manca ai nostri libri ma non avevo il coraggio di formularlo, soprattutto in pubblico, finché non ho finito di leggere il Signore delle lacrime di Antonio Franchini, titolo ispirato a uno degli appellativi di Shiva. Il testo scivolava troppo, all’inizio, mi sembrava eccessivamente indeciso tra diario di viaggio e memorie di giovinezza, citazioni à la Calasso e riflessioni a caldo su una civiltà. Ero confortato nel giudizio dalla confessione dello stesso autore, che sostiene di trovare la solidità della storia e dei personaggi più appagante dei testi aperti “come questo, che non si capisce dove vadano”. Ma lo si capisce abbastanza presto:è il confronto con la morte, con la vecchiaia, con se stessi. Bilanci che si iniziano inconsapevolmente, complice l’immersione in una realtà aliena, utilizzando come griglia una deità esotica, fascinosa, ineguagliabile per ambiguità, di un’essenza bifronte, anzi multiforme, liquida quasi, di un liquido lavico, rovente. Finché, inseguendola, ti ritrovi a casa tua, ovvero nella tua infanzia, nella tua giovinezza, nei riti dei tuoi morti, come il famoso storico delle religioni citato da Franchini, che da mezzo secolo di studi buddhisti era uscito “assai confermato nel proprio cattolicesimo di origine”. Così, dopo tante citazioni da testi sulla mitologia orientale troviamo un brano di Meister Eckart, un domenicano che, come un orientale, poneva l’accento sulla simultaneità degli attributi divini.

 

E’ in queste ultime pagine che avviene la resa dei conti, quando Franchini ripensa all’incontro con un vecchio compagno di scuola che gli ha riferito il giudizio di un professore sul suo primo libro: “Non c’è dentro nessun sentimento religioso”. Un giudizio come un altro, anzi meno importante di qualsiasi altro: privato, datato, non accademico. “Però continuavo a pensare: non c’è dentro nessun sentimento religioso. E di colpo tutta la mia vita mi è apparsa una povera vita. Come se la modernità fosse stata cancellata e non contasse più niente e fossimo ritornati a una letteratura e a un pensiero ancelle della teologia. C’era un senso, mi sembrava di cogliere un senso particolare per cui questa sudditanza che da giovane trovavo incomprensibile adesso mi appariva giustificata. Arriva una stanchezza in tutto, forse cominciavo a stancarmi dell’assenza del limite come mi ero stancato dell’ingombro della fede. E’ vero, non c’era nessun sentimento religioso in quelle pagine, pensavo ad altro, vivevo in altro. Per che cosa vivevo?”.

 

Già, per cosa? Per cosa abbiamo vissuto e soprattutto per cosa abbiamo scritto? E cosa andiamo leggendo? Perché dovrei essere soddisfatto di una narrativa che non ha dentro alcun sentimento religioso? Non si può tornare a una letteratura ancella della teologia, come avverte l’autore, ma non si può neppure continuare a pascersi di scritture orizzontali, che non incontrano mai la verticale della trascendenza, che non si occupano del Bene e del Male, o che si occupano solo del male, rappresentato sotto le specie del serial killer o del camorrista, di narrative che nel migliore dei casi confondono il Bene con l’educazione civica. La cultura, dice Franchini, è un ostacolo alla creazione letteraria come alla fede. Per creare e per credere son più propizi “fervido volontarismo e perfino una certa chiusura”. Basta: vogliamo una letteratura con dentro un sentimento religioso.

 

 

E se lo dice un direttore editoriale della Mondadori abbiamo forse qualche speranza. Oppure no: queste riflessioni sul senso della letteratura e della vita, il ritorno alle radici anche parrocchiali, che a parer mio fondano il libro, sono state ignorate dai recensori. Del resto, come osserva Franchini, molti intellettuali si mostrano bonari con l’induismo ma il cristianesimo lo detestano, “con rancore”. Non a caso le stesse persone che idolatrano il Dalai Lama, massimo esponente (cinesi permettendo) dell’unica, vera, assoluta teocrazia oggi esistente, insorgono quotidianamente contro le intollerabili ingerenze del papa. “Con le cose a noi vicine succede sempre così”.

 

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