2009-09-10 10:58:40
sul Corriere della Sera - Puglia, 10 Settembre 2009
Ritratto dello scenografo de La doppia ora, in concorso a Venezia per il Leone
Da ragazzo era un mostro con i colori e tutti pensavano che gli toccasse il liceo artistico, o la scuola d’arte di Grottaglie. Invece scelse il liceo perché voleva sincerarsi che quella
artistica fosse una vera vocazione:“Se resiste a cinque anni di liceo scientifico, allora è salda”. Lo era perché durante e dopo il liceo, Salvatore Santoro
da Latiano, in arte Totoi, ha dipinto quadri bellissimi, ritratti intriganti, nature morte inquietanti. Pittura, dunque, ma a Milano, dove va a trovare in studio Gianfranco Ferroni, quello delle
nature morte, anzi degli ambienti morti, dei muri, dei teli, degli sgabelli. E già svicola, perché la prima cosa che fa è realizzare un documentario sul pittore e il suo studio, come non se ne
facevano dai tempi della RAI in bianco e nero.
Il fatto è che la pittura ti isola. E’ per sfuggire all’isolamento, oltre che per scommessa con un amico che non era stato preso dopo diversi tentativi, che fa la scuola di cinema. Così tra
le mete dei suoi pellegrinaggi, insieme a Guccione, inserisce Ferretti, che rimane impressionato dai suoi disegni ma prende tempo. Non termina la Scuola: un gruppo di colleghi facoltosi si
autofinanzia un corto sulla storia della Sacra Sindone (era il periodo della datazione al carbonio) e un macchinista professionista rimane impressionato dalle soluzioni architettoniche messe su
da Totoi (come il polistirolo appeso a un paio di fili per una volta a stella che sembra bruciacchiata). Ne parla a un regista e così Totoi si dà da fare nei video pubblicitari e musicali, mentre
un magnifico paesaggio resta abbozzato sul cavalletto per mesi e mesi.
La gente pensa che il lavoro dello scenografo si risolva nella scelta delle tappezzerie, nell’acquisto dei decori e nei viaggi in cerca di spiagge esotiche. Invece può consistere nel
selezionare i settanta quintali di limoni della pubblicità Limoncè. E’ confronto continuo con i materiali, con le nuove tecnologie, con le ristrettezze di budget.
E’invenzione istantanea di soluzioni di carpenteria: se non sai posare due mattonelle o incastrare un telaio non puoi dirigere i collaboratori. “Architè, nun se po’ fa’” e allora lo prendi in
mano tu. Totoi ringrazia sempre il padre, che gli ha insegnato sin da piccolo a piantare i chiodi dritti. Tre martellate. A Cinecittà ha riscoperto il piacere di vedere inchiodare (chiodare,
dicono): quando questi artisti lavorano tutti insieme, è un vero concerto. A Milano si lavora con l’avvitatore, che sembra più facile, ma anche lì ci vuole arte.
Negli ultimi anni Totoi, insieme al direttore della fotografia Anthony Radcliffe, è divenuto il perno della troupe di Giuseppe Capotondi (vedi le campagne della Serie 1
della BMW e il video di SkinCharlie Big Potato). Poi il grande passo. Ostacolato da tutti i professionisti: “nel cinema si lavora così”,
“queste cose al cinema non contano: al cinema conta il dialogo”, “ noi del cinema…”. Nel cinema, in sostanza, si lavora a colori, non sembrava opportuno che Totoi si lambiccasse per accostare
marroni e grigi che simulassero un film in bianco e nero. Abituata a fotografi graffianti, che devono lasciare la loro impronta, la gente di cinema non comprendeva il sottotono di Radcliffe. Sarà
perché è inglese – sebbene di madre veneziana – ma Radcliffe, che ha iniziato con Ridley Scott – non tende a sottolineare la sua presenza con le luci: si cala nell’ambiente e sottolinea i punti
salienti della scena. Sfrutta cioè la scenografia, che Totoi, per parte sua, ha già pensato in termini luministici. Per girare tutte le scene si è resa necessaria una casa grande, che Totoi ha
dovuto ‘sgarupare’ perché apparisse credibile come alloggio di una single con reddito basso.
Uno dei punti fermi del film era che non dovesse essere collocato temporalmente, evitando però che rimandasse troppo agli anni ’70, ai quali idealmente si ricollega, perciò nella sala di
rianimazione dell’ospedale (sono riusciti a beccare un’ala in ristrutturazione) Totoi ha voluto che fossero inseriti i macchinari più recenti. Ma si è anche sbattuto - e ha fatto spendere una
cifra - per manomettere lo schermo dell’impianto di allarme che doveva comparire in una scena di disinserimento. Sul display, infatti, compariva, oltre all’ora, anche la data. Non sono dettagli
di cui, nel cinema, ci si preoccupi spesso. Ma sono forse i dettagli che hanno colpito i selezionatori della Mostra, che hanno voluto all’unanimità inserirlo nel
concorso ufficiale, non in una collaterale, “per aver restituito l’atmosfera dei noir anni ’70 in un’ambientazione moderna”.
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