L'arte è nostalgia e autobiografia*

Sul sito www.eliopaoloni.it ci sono link non funzionanti. Recupero qui i pezzi


… perch’io sosterrò sempre che gli uomini grandi quando parlano di sé diventano maggiori di se stessi, e i piccoli diventano qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e l’interesse e la profonda cognizione ec. non lasciano campo all’affettazione e alla sofisticheria cioè alla massima corrompitrice dell’eloquenza e della poesia, non potendosi cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria, dove

 

necessariamente detta la natura e il cuore, e si parla di vena, di pienezza di cuore… della utilità derivante agli scrittori… del parlar di se stesso comunque paia a prima vista che il parlar di sé non debba interessar gran fatto gli uditori, cosa falsissima…                                                                                                            G. Leopardi, Zibaldone

  

L’invenzione mi è sembrata sempre un ripiego, il sintomo di un’inadeguatezza: ricorre all’invenzione chi non è in grado di cogliere la ricchezza di motivi, di intrecci, di significati che lo attorniano. Si inventa perabbellire, per costruire un finale emblematico, per ricondurre nell’alveo di una tesi avvenimenti non allineati. L’invenzione serve nelle favole, nell’av­ventura, nel salgarismo, nel giallo, nella fantascienza (se si tratta di cattivi libri, perché in quelli buoni c’è solo rigorosa deduzione: naturale, se pur estremo, sviluppo di situazioni reali).

Da piccolo sapevo che nei libri veri, quelli per i grandi, c’è la realtà, la verità, la vita. Questa convinzione, anzi sensazione, era un po’ ingenua ma non immotivata: Thomas Mann ha scritto del suo Tonio Kroeger: “…dall’intimo simbolismo e dalla perfetta composizione di particolari anche poco appariscenti, ma suggeriti dalla realtà. Si direbbe che scene come quelle della biblioteca popolare o quella del poliziotto siano state immaginate apposta per amore dell’idea e della trovata. Non lo sono, invece, ma corrispondono esattamente al vero. Anche nella Morte a Venezia non vi è nulla di inventato… tutto era vero e bastava metterlo a posto perché rivelasse in modo stupefacente la facoltà interpretativa della composizione… durante il lavoro… avevo… la visione di un percorso assoluto” (Saggio autobiografico, Il Saggiatore, 1972). 

“Nulla di inventato”, “Bastava metterlo a posto”. Si potrebbe obiettare che ha inventato i sentimenti di Ascenbach, anzi il sentimento. Ma si può inventare un sentimento?

In replica a un giudizio di Chauvet, Manzoni scrisse: “L’essence de la poésie ne consiste pas à inventer des faits; cette invention est ce qu’il y a de plus facile et de plus vulgaire dans le travaille de l’esprit, ce qui exige le moins de reflexion…”.

De plus vulgaire.

Ma la verità invocata dal Manzoni, si dirà, era quella storica: niente è più lontano dal Manzoni dell’idea di autobiografia. Non tanto lontano se benedetto Mosca, nella prefazione all’edizione Peruzzo ‘84 dei Promessi sposi, può asserire che Manzoni “a ciascun personaggio aveva infatti prestato una parte di sé, giungendo a psicanalizzarsi, come oggi si direbbe, per scavare dal subcosciente anche i caratteri malvagi e restare quindi fedele a un segreto impegno autobiografico”. Segreto impegno autobiografico?!

Anche senza voler credere a tanto, Manzoni pensava certamente che la Storia passa per le vicende della gente comune. Perché nei casi di ognuno traspare l’ordito di ogni esistenza. E quali migliori casi di quelli dell’autore per cavare significati senza correre il rischio dell’inesattezza, di quell’imprecisione più temibile della falsità che additava Flaiano? E senza dover pressare i Cattaneo perché schiudano a interminabili consultazioni gli antri della Braidense?

Perché l’autore dovrebbe essere semplice cancelliere dei ménage altrui?

 

Ma qui scansano la parola come fosse sterco. Colmi di ribrezzo per l’approccio visceral-esistenziale, attendono i Grandi Affreschi affilando l’armamentario critico (quello buono, d’argento) da sfoderare all’apparire del nuovo Guerra e pace. Pensano che l’autobiografia possa riguardare solo il grafomane comune, che tortura il prossimo con impudiche confessioni (in realtà le cose orrende dei grafomani sono proprio i “romanzi”). Si teme il “fallimento tipicamente americano: quello dello scrittore che diventa tale solo per raccontare di una esperienza in prima persona” (Vito Amoruso, La letteratura beat americana). Infatti il disprezzo per i beat, e per gli americani in genere, parvenue della letteratura, era dovuto soprattutto alla natura autobiografica di molti exploit.

Gli stessi americani se ne facevano un problema. Ecco Edwin Muir, a proposito de Il vecchio e il mare:  “Hemingway è uno scrittore soprattutto basato sull’immaginazione e la sua immaginazione non si è mai rivelata con maggior potenza di quella realizzata in questa storia semplice e tragica”. La vicenda era realmente accaduta, nel ‘36. Era accaduta con tale concordanza di particolari che un pescatore cubano fece causa a Hemingway sostenendo di aver fornito tutto il materiale per il libro. Non conta – sento l’obiezione – non l’ha vissuta lui, quindi ha immaginato i dettagli, i pensieri, l’ambientazione, i sentimenti. E chi, allora, è uscito a pesca nella Corrente ogni giorno che fosse possibile per gran parte della sua vita, chi ha afferrato centinaia di marlinper lottarci in mezzo agli squali, chi cominciava ad avvertire gli scricchiolii della vecchiaia, chi custodiva nella memoria i sereni Leoni della gioventù?

Questo tipo di immaginazione io la chiamo autobiografia. Ma mi fischiano le orecchie: sprovveduto ragazzo, per immaginazione noi critici raffinati intendiamo quello scarto, quella capacità di trasfigurazione, quei voli del pensiero che caratterizzano ogni opera d’arte, il mettere a posto di Mann. Ma tutto ciò si applica benissimo anche ai materiali del vissuto. Perché, allora, scattare come serpenti al solo accenno ai dati biografici?

 

 

 

Antichi sdegni

 

Tra i primi e più schifati avversari dell’autobiografia, Debenedetti: quanti giri di frase e argomentazioni speciose contro la “dannata ipotesi”, la “sottile insidia”, la “pericolosa deformazione” di considerare la Recherche un’autobiografia più o meno larvata. Distinguo, anatemi, perorazioni, proclami. “È un vero e proprio romanzo, un’opera di fantasia, anche se… anche se…” e a ogni anche se fremeva per via dei mille elementi autobiografici disseminati in tutta l’opera che gli impedivano di inquadrare quest’“opera di fantasia” nella sua concezione di romanzo contemporaneo. Ma che concezione letteraria della letteratura è mai questa, che un’opera non può valere se non è di pura fantasia, cioè il più possibile svincolata dalla realtà, dall’esperienza, dalla vita insomma?

Non che, sia chiaro, Debenedetti intenda evidenziare quel salto di qualità che permette al semplice resoconto dei cazzacci propri di trasformarsi nella proiezione della vita di ciascuno. Non si riferisce Debenedetti al quid che “… conferisce ad esse (realtà date) quel supersignificato che è il suo modo d’esperirsi” (Gadda), ammesso che abbia senso stare a evidenziare con tanto sciupio d’inchiostro un concetto così elementare. No, è proprio che per D.scrittore è sinonimo di inventore. Uno scrittore non può abbassarsi a copiare dalla vita personaggi e casi.

Nella vita, per D., non si riscontra mai una “precisa e volontaria densità di significati e, di rapporti”. Possibile che lui non abbia mai riso o pianto di quelle trame così incredibilmente “precise e volontarie”, le famose “ironie del destino” che qualsiasi imbecille intravede infinite volte?

Eppure il meglio della letteratura sta dove il pronome è io, non un io schermo, diaframma lirico… infallibile corifeo, ma proprio un iocronachistico, prosaico, fuori dalla necessità di avvincere, rimpolpare, romanzare.

La felicità di Proust sta proprio nell’aver potuto limitarsi a qualche ritocco, soprattutto interpolazioni, a vicende e uomini della propria vita. Perché, dunque, non sarebbe autobiografia? Perché quel tizio invece di chiamarsi Venerdì si chiama Giovedì pur avendo le caratteristiche di un Lunedì ma anche di un Sabato? Perché l’intreccio è costruito? Perché le simbologie sono ricercate e i personaggi vividi e autonomi?

No, ciò che fa la Recherche appena diversa dalla biografia di Proust è la viltà. È per viltà – o delicatezza, desiderio di non ferire – che Proust ha tanto trasposto, modificato, condensato. Non era un disegno artistico a muovere i mille artifizi con cui ha voluto nascondere la vergogna sua e di molti suoi amici, ma la viltà che gli venne aspramente rimproverata da Gide, dal cui Journal apprendiamo che lo stesso Proust si rimproverava questa indecisione.

Indecisione. Ipocrisia. In tante invenzioni proustiane non c’è alcuna necessità artistica: è stato costretto a fare qualcosa di simile a ciò che Kerouac verrà poi costretto a fare per motivi di marketing da un apposita clausola editoriale: variare, in ogni diverso romanzo, i nomi veri dei suoi amici.

I personaggi, del resto, mirabili Frankenstein, costruiti “come Françoise cucinava quel suo manzo alla moda”, un pezzo di uno e un tratto di quell’altro, restano poco più che specchi nei quali si riflette la psicologia dell’unico vero personaggio del romanzo, che se è il “Monsieur qui raconte et qui dit: je” è anche un “narrateur qui est Je et qui n’est pas toujours moi”. Spitzer osserva: “che Proust identifichi se stesso con quell’io si può desumere dal vocativo “Mon pauvre Marcel” di una lettera di Albertine: ma questo particolare come viene nascosto in secondo piano!”. Nascosto del tutto, direi io. 

 

Certi suoni sono così compenetrati all’esperienza dell’uomo Proust, certi nomi così legati all’essenza delle cose, alla loro verità, che non può fare a meno, per evocare la precisa sensazione destata in lui dal “Mio caro” anteposto al proprio nome (com’è dolce chiamarsi Federico nell’ombra del mattino, scriveva qualcuno) di sottrarsi, ne La prigioniera, al “dovere” del romanziere di “creare dei nomi propri che siano insieme inediti ed esatti”. Getta la maschera, sia pur timidamente, come per ipotesi e defilandosi dietro a un se(“il che… se dessimo al narratore lo stesso nome dell’autore di questo libro, avrebbe fatto: Mio Marcel, Mio caro Marcel”) e si arrende all’impossibilità di caricare di significato un suono, una frase, una sensazione che non siano quelle giunte precisamente ai suoi sensi. E poi ancora, dimentico di ogni finzione, forse obnubilato dalle sofferenze o pungolato dal narcisismo, lasciainesplicabilmente che Albertine scriva al narratore: Mio diletto e caro Marcel… cher Marcel, cher Marcel!

Quello stesso Marcel che, meravigliato della capacità di Dostoievskij di calarsi nei panni di un assassino, giunge a sospettarlo di omicidio e ammette: “Io non sono un romanziere” (per fortuna, aggiungo io). E continua: “Può darsi che i creatori siano tentati da certe forme di vita che personalmente non hanno mai sperimentate”. Può darsi.

Non è l’io narrante a esprimersi: è Proust stesso che dichiara la sua estraneità al mondo dei romanzieri, dei creatori. Degli inventori da ufficio brevetti. Lui, come ha sottolineato J. F. Revel, appartiene al mondo dei memorialisti, alla tradizione di M.me di Sévigné, dei Goncourt.

 

Alla ricerca di appigli, i sostenitori dell’invenzione rasentano continuamente il ridicolo: nella premessa di Giovanni Bogliolo e Piero Toffano a un’edizione di All’ombra delle fanciulle in fiore, si sostiene che “la Recherche non è un’opera autobiografica perché della vita del narratore é raccontato solo quanto è utile all’economia dell’opera, e ogni dettaglio superfluo è soppresso…”.

Ma in quale autobiografia sono inclusi tutti i dettagli di una vita? Anche nel più prolisso e deteriore dei memoriali il narratore si concentra sull’eliminazione del superfluo. E non per rigore creativo ma per l’impossibilità materiale di stiparli in qualcosa che non sia un’enciclopedia.

Naturalmente va reso significativo ciò che non è soppresso. E questo non lo si fa con l’invenzione, perché l’artista – come voleva Ruskin – suo maestro e ispiratore – “non è che uno scriba, il cui compito non è tanto immaginare quanto percepire”.

“… Per scrivere quel libro essenziale, l’unico libro vero, un grande scrittore non ha, nel senso comune della parola, da inventarlo, in quanto esiste già in ciascuno di noi, ma da tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli d’un traduttore…”.

“Un uomo nato sensibile, ancorché privo d’immaginazione, potrebbe scrivere romanzi stupendi. La sofferenza… i conflitti, tutto questo… potrebbe fornir materia a un libro… bello come se fosse stato immaginato, inventato…”. E qui davvero esagera Marcel: basterebbe la sensibilità di un uomo comune, senza neanche studiare un po’ di costruzione. Ma forse all’epoca un uomo “sensibile” era naturalmente immerso in una scuola di scrittura creativa.

 

"E io compresi che il materiale dell'opera d'arte altro non era che la mia vita passata..".

 

Ma già, che sciocco! Non sono parole di Proust ma del Narratore, che esprime sull’arte, evidentemente, idee diametralmente opposte a quelle abbracciate dall’autore. Nella sua frenesia d’inventore, infatti, Proust avrebbe inventato apposta, a uso dell’io narrante, tutta una falsa Estetica di rigorosa coerenza.

Il Narratore, questo sconosciuto.

 

 

 

Altre ricusazioni

 

Romano Bilenchi (intervista di Grazia Cherchi, in Panorama 16.08.87) a proposito di Amici in fase di ristampa: “Tutti i fatti di Amici… sono veri e vissuti in prima persona, e tutte le persone che vi compaiono hanno il loro vero nome e cognome. Eppure si tratta di racconti, non di saggi, né di pura memorialistica”. Non ne dubitiamo: la qualità di scrittura fa di qualsiasi cosa “letteratura”: l’atto di un notaio o la lettera dello spedizioniere di Gadda. E nel passato tante opere erano, nelle intenzioni, pura memorialistica. La grazia della scrittura ce li ha consegnati come letteratura. Ma le marchese e i Marco Polo non se ne vergognavano. Consideravano la Storia della propria vita più seria e importante dei romanzetti d’invenzione.

 

In Lo specchio che ritorna, Ed. Spirali (cioè Verdiglione, un finto analista che si fingeva editore per un finto romanzo) Alain Robbe-Grillet “vagabonda fra i ricordi della propria vita, dalle estati nella casa di famiglia a Kerangoff, in Bretagna, alle esperienze di lavoro coatto nelle fabbriche della Germania hitleriana, dal suo lavoro di agronomo alla vocazione e allo sviluppo della carriera letteraria. Il tutto fra antenati, nonni, zii e genitori che” come in ogni autobiografia che si rispetti, “esibiscono tic e manie varie e assortite” (commento sulla Terza pagina della Gazzetta del Mezzogiorno). Eppure lui scrive nel libro: “Affermo di ricusare l’impresa autobiografica”. La ricusazione gli è permessa da un filone fantastico che si sviluppa intrecciato ai suoi ricordi e culmina nel ritorno dello specchio – magico, siamo quindi in pienafiction (forse) – che dà il titolo al libro.

Non mi permetto di dubitare che questa vicenda immaginaria arricchisca il libro, lo ispessisca, lo innervi, lo trasfiguri. Tanto, se anche così non fosse, se non obbedisse a un principio di necessità anzi figurasse come semplice orpello, state pur certi che ce l’avrebbe schiaffata lo stesso, pur di ricusare. E che figura ci faceva Alain Robbe-Grillet a proporre un libro tradizionale? Un semplice, godibilissimo libro? Per di più in odore di autobiografia?

 

Simenon, freddato da una diagnosi fortunatamente errata, volle lasciare, immaginandosi (qui davvero siamo nel campo dell’immaginazione, in un certo senso) prossimo alla morte, una testimonianza di sé al figlioletto di due anni, che non avrebbe avuto modo di conoscerlo. Con questo solo e unico scopo, riempì tre quaderni con la storia della sua infanzia. Cosa c’è di più aderente al vero, di più personale – e quindi più lontano dall’affettazione, dalla fredda costruzione, dalla ricerca letteraria – del confessarsi a un figlioletto con il cuore in mano, del tramandargli un ritratto di sé, un ritratto di famiglia? Cos’altro potremmo definire, se no, autobiografia?

Eppure, sol perché questo racconto – non a caso intitolato Pedigree, vale a dire: documento biografico ufficiale, storia obiettiva e documentata di un’ascendenza, atto inoppugnabile – venne riscritto in terza persona su suggerimento di Gide, Simenon ritenne legittimo affermare di aver scritto un romanzo.

 

Marina Jarre, donna dal passato romanzesco, scrive una storia della sua vita di esattezza quasi anagrafica, un’autobiografia che più sfacciata non si può e poi spiega all’intervistatore e recensore Giovanni Tesio (Tuttolibri, febbraio 87): “Il mio è un romanzo, non un’autobiografia. È un libro nato dalla mia incapacità a scrivere un’autobiografia, anche se ciò che narro corrisponde a quanto ricordo della mia vita”. “Incapacità” di scrivere un’autobiografia! Come se invece del più naturale esercizio del pensiero, la memoria, si trattasse di un numero al trapezio o di un curiosissimo primato da Guinness.

 

Nell’85 Goffredo Fofi giudica il diario di Maria Pace Ottieri miglior libro dell’anno, insieme a un libro di memorie di Altiero Spinelli. Lungi dal trarne le dovute conclusioni, Fofi si rammarica di dover rivolgersi alla non-letteratura.

 

Quanto a me, se una definizione dovesse farmi vergognare sarebbe proprio di quella di romanziere. Mi sentirei tutt’uno con la Invernizio. Qualsiasi vetta artistica sia stata a indicare in passato, oggi romanzo è la parola che campeggia sussiegosa sulle copertine degli Harmony.

 

          

* Così Mino Doletti, recensendo Nostàlghia di Tarkowskj, parafrasava, anzi contraddiceva Croce (l’arte è fantasia e rappresentazione).

 

 

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