Tengo due mamme

 

Su Raitre (I dieci comandamenti) sere fa

 

Formidabile lezione a questo sterile paese di zuzzurelloni edonisti e vigliacchetti da due donne milanesi ‘sposate’ a Barcellona che hanno avuto quattro splendidi bambini (e non è stato divertente: si sono volute sottoporre alla penosa trafila dell'inseminazione artificiale). Inoltre in questa coppia così moderna, trasgressiva, e dinamica (per sopperire alla carenza di fiabe con principessa rosa e principessa azzurra hanno fondato una casa editrice) si è deciso, udite udite, che una di loro avrebbe fatto la

mamma a tempo pieno. La casalinga. A scorno delle donne tutto carriera e affermazione personale, che alla parola casalinga annettono necessariamente l'aggettivo disperata e rimandano atterrite il compimento della loro più profonda vocazione (tanto profonda che spesso non viene più disseppellita).

 

Anni fa mia nipote, compagna di una delle bambine, tornò da scuola strepitando che anche lei voleva due mamme (senza sognarsi di rinunciare al papà, s'intende). Io con due mamme ci sono cresciuto: mia zia viveva con mia madre nella casa del nonno e, appellativo a parte, non c'era nessuna differenza, specie quando mia madre ha dovuto star fuori. Il padre, il modello maschile, l’ho ricavato da due zii, ma anche dai cugini più grandi, e ovunque capitasse. Sono cresciuto bene? No. E’ stato un danno così grave? Forse no: alla fine è venuta fuori una personalità sfaccettata, non superficiale e incline alla critica. Ma avrei preferito avercelo, il padre, invece di costruirmelo come fossi Frankestein, prendendo da qui e poi da lì, oscillando follemente dietro a qualsiasi interessante modello maschile o portandomeli dentro tutti nevroticamente, costeggiando a lungo il baratro. Sì, avrei preferito avercelo in casa e crescere da coglione normale. Del resto un padre esisteva, sapevo chi era, ho vissuto tra i suoi quadri, ho letto gli appunti in margine ai libri che aveva letto. Non era un mercenario, ignoto per statuto.

            

Trovo fondamentale che queste donne siano madri, vere madri che hanno portato in seno e poi dato alla luce ognuna i suoi bambini. Ma se anche avessero fatto ricorso all'adozione - pratica di scarso successo anche per le coppie normali - mi sarei fidato del loro istinto materno, dell'indubbia capacità di accoglienza di Maria Silvia, Francesca e delle loro madri.

 

Nella trasmissione, tuttavia,  si asseriva che la mancanza del padre non rappresenta un problema: il padre è sempre assente, in passato perchè distante, oggi perchè evanescente, privo di ruolo, di forma, di autorità: nel migliore dei casi è un mammo. Ma questo quadro, non irreversibile si spera, costituisce precisamente il dramma odierno, uno degli effetti della deriva nichilista che ha causato lo sfacelo sociale. Sancire l'inutilità della figura maschile, e non solo nella famiglia ma nella società tutta intera, nella quale, dalle aule della scuola a quelle dei tribunali, è venuto meno il principio di autorevolezza - e di autorità - incarnato dalla figura paterna, sarebbe il colpo di grazia per la nostra civiltà. Ne completerebbe il processo di destrutturazione, eliminando tutto ciò che può essere d'intralcio ai poteri, bisognosi di una società snervata, fluttuante, indistinta, proprio quella glorificata dalle battaglie sull'irrilevanza del genere. Non può esservi crescita, individuazione, personalità strutturata, senza il ricorso alle polarità. Solo la tensione degli opposti (che Jung, riprendendo Eraclito, definiva  Enantiodromia) fornisce compensazione e completezza.

 

Trovo anche insopportabili i cinguettii sull'amore che consente e riscatta tutto, questo diabolico fraintendimto dell'"ama e fa ciò che vuoi" di Sant'Agostino. L'amore è un sentimento - quasi sempre in realtà si tratta di innamoramento, passeggero per definizione - e non è pertinenza dello stato sancirlo.

Sulle nozze omosessuali ho già scritto qui, anche se le argomentazioni più articolate, più esaustive, direi definitive, sono nella interminabile discussione sostenuta da Roberto Buffagni su questo post La mia avversione è decisa, dunque, ma non così netta: un distinguo va operato. Fermo restando che su certe adozioni da parte di coppie maschili la penso come Aldo Busi ("l’orribile pratica adottata dai gay più famosi, più ricchi e più spostati che basano la loro genitoriale felicità sull’ennesimo trauma di una donna, anonima o no, che per prestarsi a una cosa così degenere deve essere fuori di testa dal dolore pregresso, inemendabile, che può solo essere esasperato, tanto  che mi chiedo come questi padri possano guardare  i loro figli sorridenti senza vedervi  in contro luce la faccia  inespressiva e mortuaria di chi li ha partoriti") e come Piero Laporta, ma anche come l’icona gay Rupert Everett e come la maggioranza degli omosessuali, e che trovo aberrante (anche per gli etero) l’inseminazione artificiale non posso non riconoscere che due madri sanno costruire un nido accogliente (se pure, forse, troppo ovattato).


Poiché, tuttavia, melassa a parte, questa è una guerra, e qualsiasi apertura porterebbe inevitabilmente, di equiparazione in equiparazione, attraverso l’uso demagogico, totalitario, dell'abusato termine ‘diritti’, all’adozione da parte dei maschi, una vera iattura dato che, malgrado tutto il cianciare sulla matrice culturale del genere, non è mai esistito un istinto paterno (e per quanto si possa contare – forse – su una frequentazione più assidua del 'lato sinistro' da parte di un omosessuale, l’adozione da parte di due uomini resta un gioco, un turpe, egoistico capriccio, quello che al paese mio si chiama sciucarieddu) non posso che augurarmi che vada in porto il recente disegno di legge sul contratto di convivenza e solidarietà, che fornirebbe a qualsiasi convivenza, prescindendo dalla sessualità e anche degli affetti (sorelle che vivono insieme, nonni e nipoti, semplici amici) quelle garanzie di cui Maria Silvia e Francesca lamentano l'assenza.

 

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