Cronista o visionario?

Il magnifico marrano

 

Chi ha scritto la più bella agiografia cattolica? Un ebreo. Non più tale, non del tutto – bisogna dirlo - all’epoca della stesura del Canto di Berrnadette: Franz Werfel si era staccato dalla comunità ebraica sin dal 1929, anche se - per lealtà morale verso l'ebraismo, soprattutto in quegli anni segnati dall'antisemitismo e dalle persecuzioni - 

non aveva voluto convertirsi formalmente al cattolicesimo. Per sfuggire alle persecuzioni naziste lo scrittore praghese si era rifugiato sui Pirenei, dove gli “fu dato co­noscere la meravigliosa storia della giovinetta Bernadette Sou­birous e i fatti meravigliosi delle guarigioni di Lourdes”. Sette settimane, questo è il tempo passato sul posto. Sette non è certo un numero privo di risvolti simbolici. “Un giorno – scrisse – tribolato com’ero, feci un voto. Se fossi u­scito da quella situazione dispe­rata e avessi raggiunto la costa a­mericana avrei prima di ogni al­tro lavoro cantato la canzone di Bernadette come meglio avessi potuto. Questo libro è l’adempi­mento di un voto”.

 

Che calore può emanare un libro compitato per adempiere a un voto, una scaramanzia, un superstizioso onorare una decisione scaturita da condizioni disperate? Non potrà che risultarne il compendio di una ricerca coscienziosa quanto arida, pensavo.

E invece no. Il voto probabilmente andava a innestarsi su un’esigenza già formata, su una fascinazione che non ha nulla della curiosità erudita. L’intendimento era molto più antico, sedimentato: “Sin dal giorno nel quale scrissi i miei primi ver­si, giurai a me stesso che avrei re­so onore sempre e dovunque, at­traverso i miei scritti, al segreto divino e alla santità umana: no­nostante che l’epoca nostra, con scherno, ferocia e indifferenza, rinneghi questi valori supremi della nostra vita».

 

Non stupisce che l’ambiente socio-politico dell’epoca sia magnificamente riportato ma il modo in cui Werfel si cala nell’intimo dei personaggi, notabili o rozzi giornalieri che siano, è fuori dal comune. Nonostante le settecentoventicinque pagine dell’edizione Gallucci la prosa è così limpida e accattivante che non ci si stanca mai: la grande fiaba scorre fluente, una diffusa ironia convive perfettamente con la serietà dell’Evento. Lei è seria e puntigliosa in maniera quasi autistica, concentrata sugli incarichi che la Signora le assegna e persa nella gloria, che non cessa al cessare della visione, ma la nutrirà per tutta la vita. “Sono stata scelta perché sono la più ignorante”. Come San Giuseppe da Copertino, ‘illetterato et idiota’. Canto. Poema. Romanzo lo definisce l’autore, dato che quella del romanzo è l’inevitabile forma del nostro tempo.  Fiaba, aggiungerei. Come ogni Grande Fiaba, quest’opera incanta e incatena, la si scorre come se si fosse già sentita, anzi vissuta. La maestria è accuratamente dissimulata, i personaggi si raccontano da soli, i fatti si incastrano come se non avessero mai potuto svolgersi in altro modo. Ombre e meschinerie sono tanto diffuse quanto impotenti. Può sembrare un libro semplice, per anime semplici. Ma non lo è ogni grande classico?

 

Fin qui possiamo solo prendere atto della stoffa dell’autore. Ma quando vengono dipinte le visioni di Bernadette non c’è voto che tenga, non c’è maestria stilistica che basti. Il lavoro di documentazione (ottant’anni dopo) non spiega l’afflato fantastico, la condivisione dell’esperienza mistica. E’ stato già detto che in queste pagine intense Werfel abbia ritrovato non poca della sua verve espressionista e che il dilatarsi dell'anima della piccola analfabeta di fronte alla «bellissima Signora di Massavielle» sia reso con ritmo quasi sperimentale, che Werfel trasporti Bernadette in una dimensione poetica fatta di sinestesie e lunghi, trattenuti silenzi, di fronte al quale il mondo di misere ambizioni e di arrivismi petulanti che ruota attorno ai prodigi di Lourdes pare al lettore sempre più profano e insignificante. Ma è palese che quest’uomo non fosse estraneo a esperienze mistiche in prima persona. I secchi resoconti della poco dotata (letterariamente) ragazzina non avevano nulla di espressionistico. E non c’è psicologismo che gli abbia potuto permettere di sentire con la Santa. Può darsi che abbia copiaincollato esperienze riportate da mistici più esperti e acculturati. Ma la mia pelle d’oca mi fa pensare che non sia così.

 

Di fronte a questo canto epico quasi sbiadisce la sfida artistica – peraltro riuscitissima - che Werfel si era proposto: costruire una saga antimoderna per mettere alla berlina la saccenteria del positivismo e i tronfi burocrati della Francia del Secondo Impero esaltando il valore creativo del misticismo e la forza dell'invisibile.

 

 

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