Anonimato

Se è digitale il malcostume fa simpatia

 

Mi ero rassegnato ai nickname. Sono come i tafani, non puoi liberartene davvero. Quasi sempre sono adottati per tendere agguati, lanciare insulti, far deragliare ogni discussione sui blog. Ma è meglio avere a che fare con evidenti pseudonimi, alla fin fine, che con dei fake, che danno solo l’impressione  di un 

intervento più serio, più ficcante. Quando però me li sono ritrovati su un sito di Pellegrini, gente che ha fatto, o fa, il Cammino di Santiago, mi è sembrato davvero troppo: “Scusate se mi permetto di indicare la pagliuzza – ho scritto -  ma è mai possibile che anche su siti come questo la gente abbia bisogno del nickname? Leggo dei diminutivi femminili che andrebbero bene per certe chat. Sbaglio a pensare che un pellegrino debba avvicinarsi a viso aperto, senza maschere, travestimenti, incrostazioni?”.

Non l’avessi mai fatto. Tanto per cominciare sono stato trattato come un analfabeta digitale: “Non sai che questa è una precipua caratteristica dell’interazione sul web? Una conquista della modernità, una liberazione, una magnifica opportunità?”. I più garbati hanno utilizzato il pretesto dell’omonimia, della possibile confusione tra frequentatori con lo stesso nome. Come se fosse pacifico che il cognome non va MAI usato. E’ stata presentata l’argomentazione “cosa cambia? conta quello che dico” e qui pesco da tutt’altro sito una risposta articolata, elegiaca, sepolcrale: “Perdoni ma non credo che un nome proprio di persona determini l’efficacia di un commento. Perdoni ma per me sapere che Mario Rossi è il suo nome non aggiunge nulla di fondamentale alla discussione, né rende più punzuti i suoi commenti. Si rassereni, non ho un blasone, il mio nome non le direbbe assolutamente nulla. Non sono una personalità nota per il suo nome, non ho, semplicemente, ispirazioni di eternità: i pensieri spesso muoiono non appena proferiti, altri percorrono l’eterno solo per merito di altri. Porre il proprio nome accanto al proprio pensiero, mi appare tanto un epigrafe posta alla testa del cadavere non ancora sotterrato”. Che, tradotto, suona così: “Straparlo senza riflettere, sparo banalità già defunte, orecchiate, meglio non espormi al ridicolo e tenere pure pronto un altro nick per sostenere il contrario domani”. C’era poi la tesi del ‘nome di battaglia’: “Il soprannome mi definisce meglio, coglie le mie vere caratteristiche, lo adotto come i pellirosse sceglievano il nome da adulti”. Per finire il maschio alfa, il  Moderatore, mi ha trattato come uno sventatello: “Tu non conosci i tremendi rischi del ‘furto di identità’", manco fosse Britney Spears. La mia replica sprezzante, insieme a tutti i commenti dell’off topic, è stata, giustamente, spostata in un Argomento a parte (in seguito scomparso).

L’argomentazione ‘pellirosse’ è la più accettabile: trovo comprensibile che in un ambito dove non si può presentare il volto si ricorra a un agnome che indichi il retroterra di chi scrive, le sue inclinazioni, le sue predilezioni. Si potrebbe guardare con favore a un nick virgolettato, inserito tra nome e cognome, ma non lo si vedrà mai: il vero nome immiserirebbe la maschera. Perché ciò che si vuole, in realtà, è elevarsi dalla quotidianità, dalla mediocrità, dalla meschinità. Battagliare in un regno virtuale con un’identità virtuale, sentendosi per un po’ Re Artù o Che Guevara o Accademico della Crusca. E, soprattutto, nascondersi. Non solo agli interlocutori ma a chiunque possa domani esercitare un potere. Eventualmente. In un regime dittatoriale sarebbe la norma ma qui si trema di fronte a chi, domani, potrebbe accordarci un favore, anzi un favoritismo, o semplicemente farci un dispettuccio, intralciare una carrierucola, negarci un biglietto omaggio.

 

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